Avviamento al lavoro? Meglio Calderà dell’expo

Avviamento al lavoro? Meglio Calderà dell’expo

Non molto tempo fa mi è capitato di imbattermi nel post di un amico che, lamentandosi del lavoro non retribuito dei volontari dell’expo citava, come buon esempio, la cultura del lavoro americana secondo la quale anche un lavoretto come dar da mangiare ai cani del vicino, viene regolato da precisi accordi.

In Italia mancherebbe la cultura del lavoro. Come si fa a non essere d’accordo?

Sempre riferendoci all’expo, basterebbe pensare al fatto che i soldi per le tangenti si trovano sempre e quelli per i giovani che terranno in piedi il baraccone, no.
Basterebbe pensare che comunque, nonostante questo, milioni di visitatori, incoraggeranno questo atteggiamento, pagando un biglietto e di fatto continuando ad incrementare questa mancanza di rispetto per il lavoro.

Ma lasciamo perdere per un attimo l’expo, ennesima occasione persa di un’Italia che si fa bella sulle spalle di pochi (che pure si offrono per lavorare gratis) e torniamo alla cultura del lavoro che in Italia mancherebbe.

Scrollato di dosso il disfattismo tipico di chi, come me, non vede una speranza che sia una, la mia mente e i miei ricordi, sono precipitati a Calderà, piccolissimo quartiere in cui sono cresciuto e alla mia pre-adolescenza, trovando di fatto, un motivo per non andare a cercare buoni esempi oltreoceano.

Calderà: piccolo borgo di pescatori.
Pochissimi bambini con cui giocare, un campo in terra battuta accanto al mare.
Reti di pescatori, barche, casotte di tegole e cemento e poche botteghe.
Un autobus che ancora non potevo prendere. troppo piccolo.

Questo, un piccolissimo ritratto di quello che era il posto in cui vivevo.
Io 8 anni, più o meno.
La fantasia di un’epoca che non aveva conosciuto ancora l’invadente tecnologia di adesso.

Ad un certo punto della mia vita, rapito dal quieto scorrere delle giornate invernali, quando proprio non si arrivava a formare un gruppo abbastanza nutrito di bambini per giocare a “qualsiasicosavabene”, cominciai ad osservare il “mestiere” di chi avevo attorno: pescatori, pescivendoli, la rosticceria del signor Giacomino, la bottega della signora Anna, il pollaio della signora Carmelina etc…

Era solo un gioco, ma avevo deciso di “lavorare” per loro, di tanto in tanto.
Uno dei primi fu Don Giacomino, un uomo croccante fuori e tenero dentro. E non lo dico per denigrarlo o solo perché titolare di una rosticceria.
Lui era così! Un uomo che mi sembrava sempre severissimo sul lavoro. Un maresciallo, ma che quando decideva di accendere la sua simpatia, non lo fermavi più.
Non ricordo una sola volta in cui mi abbia chiamato col mio vero nome. Non ho mai capito se scherzasse o se davvero il mio nome fosse l’ultima delle sue preoccupazioni.
Fatto sta che una sera, mi ritrovai a prendere le ordinazioni per lui: arancini, sfincioni di riso, pitoni al prosciutto.
Una sola sera, in fondo stavo solo giocando anche se tutti mi trattavano con molto rispetto. Io ero quello che prendeva le ordinazioni. Mica cotica. Ricordo la mia paga: 1000 lire e due sfincioni di riso.

Qualche tempo dopo, decisi di provare a fare un altro mestiere. Che cosa meglio del pescivendolo a Calderà. Urlare l’elenco dei pesci a bordo strada. Pesci che non conoscevo assolutamente tanto che poi i clienti stessi mi indicavano sorridendo, quali avrebbero preso.
Non pagavano me, avrebbero pagato direttamente il pescivendolo. Dopo. Funzionava così!
Tra persone per bene, non esiste il problema.
Il pescatore della storiella decise che avrebbe assunto chi si fosse svegliato prima tra me e l’unico altro bambino del quartiere.
Ore 04:00 pronto davanti al banchetto. Il pescatore aveva dato appuntamento alle 7:30. Paga? 500 lire e un cartoccio di triglie.

La signora Carmela, ogni tanto mi incaricava di far rientrare le galline.
Non avevo paga ma potevo prendere delle figurine a nome suo dal tabaccaio.
All’edicola lavoravo part time cioè quella mezz’ora che il titolare doveva buttarsi a mare e rinfrescarsi un pò.
La paga erano i fumetti Bonelli. Ho iniziato in questo modo la mia nutritissima collezione.

Insomma, ho giocato, vero. Mai lavorato seriamente, anche perché il mio lavoro vero era “provare” a fare i compiti e studiare.

Il ricordo che mi rimane, però, è di una comunità che, nonostante il gioco, ti chiedeva di essere puntuale, rispettoso e che in cambio ti dava ciò che meritavi. Quella era cultura del lavoro e non l’ho imparata in America.
Certo purtroppo poi è seguito uno dei tanti tristi “ventenni italiani” e di quella cultura ce ne siamo fatti poco io e quelli della mia generazione.

Mi piace però pensare a quel periodo, a quelle persone semplici del sud che mai hanno fatto mancare nulla ai propri figli e che mai hanno regalato loro qualcosa.

Ripensando all’expo, mi viene in mente che non è la cultura del lavoro “modello americano” che ci manca, ma uomini e donne come quelli di quel piccolo borgo: don Giacomino, la signora Anna, quei pescatori.
Gente che ha insegnato ai propri figli a guadagnare senza abusi, senza barare, senza offendere il lavoro di nessuno.
Fosse anche un bambino di 8 anni, che per gioco, impara a lavorare.

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